venerdì 2 marzo 2012

I rifugi antiviolenza, cosa sono e quali sono i loro scopi

Riportiamo qui la traduzione di una lettera scritta da una donna canadese ospitata in un centro antiviolenza al giudice che si sarebbe dovuto occupare del procedimento a carico di suo marito, accusato di violenza domestica. Ringraziamo centriantiviolenza.com per la segnalazione.
Alla cortese attenzione del Giudice McMurtry,

[…]

L’anno scorso, in un raptus di rabbia e frustrazione contro mio marito, chiamai la polizia. Ero in cura all’epoca, e ancora oggi soffro di depressione e di un grave disturbo ansioso. Quando litigo con mio marito, il mio disturbo mi rende aggressiva e fa sì che io voglia causargli dei problemi. La mia reazione quel giorno fu quella di chiamare la polizia.

Le forze dell’ordine mi obbligarono ad accusarlo di qualcosa; in un momento in cui la mia mente era annebbiata e non ragionavo razionalmente, dissi alla polizia che mio marito mi aveva minacciato di fare del male a me e ai nostri figli. Ho visto così tanto sui giornali e in TV riguardo presunti abusi di uomini ai danni delle mogli, che quella fu la prima cosa a venirmi in mente quando la polizia arrivò a casa nostra. Non c’era stata assolutamente alcuna violenza fisica alla base della mia chiamata, assolutamente nessuna. In quel momento tuttavia, non potei immaginarmi le implicazioni delle mie azioni dato che agivo spinta dalle emozioni, piuttosto che dalla ragione.

Gli agenti non mi chiesero mai se ci fosse stato qualche motivo alla base della mia decisione di depositare quella denuncia, né sembrava importasse loro qualcosa. Non mi fu dato tempo di riordinare razionalmente i miei pensieri. La polizia semplicemente prese le mie parole come se fossero la verità assoluta. Immediatamente, mio marito fu arrestato e messo in carcere, dove passò sei settimane. Dopo il suo arresto, diventai ancora più ansiosa e ebbi timore che le autorità potessero fare qualcosa di sbagliato.

Fui mandata in un centro antiviolenza. Una volta entrata lì dentro le impiegate del centro, la maggior parte delle quali sono esse stesse donne divorziate, mi sottoposero a un lavaggio del cervello affinché io dicessi alla polizia altre cose negative sul conto di mio marito, per inguaiarlo ulteriormente. Mi sentii forzata a seguire le loro istruzioni legali. Secondo la mia opinione, i rifugi antiviolenza non dovrebbero fornire consulenza legale alle donne o spingerle a compiere determinate azioni giuridiche; questo dovrebbe essere materia degli avvocati. La posizione di dipendenza presso un centro antiviolenza spinge le donne a seguire i consigli legali forniti dalle operatrici, a sentirsi obbligate a ubbidire. Nel rifugio, sia io che i bambini fummo bombardati di informazioni su quanto gli uomini possano essere violenti; personalmente credo che l’esposizione a materiale audio-visivo sulla violenza domestica abbia influenzato negativamente i miei figli al punto che essi stessi adesso credano che gli uomini, in generale, siano dei violenti. Come ho scoperto in seguito, i rifugi antiviolenza non costituiscono solo un posto dove le donne possono andare per un aiuto, ma un luogo dove donne e bambini vengono rieducati a odiare gli uomini e le mogli incoraggiate a divorziare dai loro mariti e a distruggere le loro famiglie. […] I miei bambini sono stati esposti a più abusi nel centro di quanto siano mai stati esposti al di fuori di esso [ si legga anche la storia di Angela L. per un interessante parallelo con la situazione italiana ].

Quando cercai di ammettere il mio errore davanti alla procuratrice, mi fu detto fondamentalmente che ero una bugiarda e che avrei dovuto mantenermi fedele alla denuncia originale che fu fatta sotto la pressione della polizia e mentre ero in stato di ansia. Mi fu detto che le donne ritrattano le loro querele solo perché i mariti le minacciano. Mi fu detto che sarei stata arrestata se avessi provato a cambiare la mia versione. Quando provai a convincere il mio legale a scrivere una lettera alla Corona per spiegare le circostanze, egli si rifiutò di seguire le mie istruzioni. Era come se lui non volesse andare contro quello che sapeva essere ciò che la Corona e la polizia volevano, ossia che mio marito si proclamasse colpevole; si rifiutò di rispondere alle mie chiamate e alle mie lettere. Il suo ufficio anzi incaricò il Legal Aid [ l’ufficio di tutela legale gratuita ] di rappresentarmi. Scrissi una lettera alla Corona io direttamente, ma non ricevetti alcuna risposta.

In tutto questo orribile complotto, nessuno era interessato ad aiutare me o i miei bambini; tutti desideravano solo etichettare me come vittima e mio marito come violento. Quello che capisco adesso è che la sola cosa che il sistema desiderava era condannare mio marito e che avrebbe usato ogni mezzo, compresa l’intimidazione e la minaccia di togliermi i bambini, per ottenere quel risultato.

Mi recai in tribunale durante una delle udienze preliminari per provare a raccontare la verità, ma quando la procuratrice mi vide, non mi consentì di parlare. Una volta al contrario, durante un’udienza in cui era presente mio marito, i rappresentanti del rifugio antiviolenza non ebbero alcun problema ad ottenere un incontro privato con il giudice per discutere il caso. Mi sembrò che la procuratrice considerasse più importante quello che avevano da dire le operatrici del centro di ciò che invece avevo da dire io, la “vittima”. Tutto sembrava orientato alla condanna di mio marito e ad impedire che egli potesse vedere i nostri figli, a prescindere dal prezzo che io e loro avremmo dovuto pagare.

Mio marito fu costretto a licenziarsi grazie all’intervento delle autorità che hanno contattato il suo datore di lavoro. Io e i miei quattro figli avremmo dovuto vivere a carico del sistema previdenziale. I bambini piangevano perché volevano vedere loro padre, che è stato sempre un buon padre per loro. Il Children Aid mi minacciò di togliermeli se avessi permesso a mio marito di vederli. Loro, lui e io stessa abbiamo ricevuto un gravissimo danno finanziario ed emotivo dal sistema della giustizia.

Sono passati più di nove mesi da quando questa storia è iniziata. Fino ad oggi, quelli del sistema ancora non vogliono ascoltarmi né preoccuparsi dei miei figli. Sembra che il sistema non voglia ammettere che una donna possa compiere degli errori come chiamare la polizia in un attacco d’ira. Basandomi sulla mia esperienza, posso dire che criminalizzare e perseguitare i padri, a prescindere dal danno subito dai bambini, sia lo scopo finale del sistema.

Da quando questa storia è iniziata, sono stati spesi migliaia di dollari pubblici e innumerevoli ore sono state trascorse dalla polizia, dai giudici e dai procuratori sul mio caso. Io sono l’unica testimone, ma ancora la procura esercita pressioni affinché mio marito si dichiari colpevole e nel frattempo mi intima di fare quello che vogliono loro. Come può proclamarsi colpevole se non lo è? Io non voglio che dichiari la sua colpevolezza per qualcosa che non ha fatto. Che genere di giustizia sarebbe?

Sembra che vi sia un sistematico pregiudizio contro i padri da parte della polizia e delle procure per quanto riguarda la violenza domestica, al punto che la giustizia è da considerarsi ideologizzata e maliziosamente schierata. Io ho un figlio maschio e mi preoccupa molto pensare a quello che potrebbe attraversare a causa di questo sistema quando diventerà grande. Sono esterrefatta da quello che ho visto succedere e da come il reato di violenza domestica sia diventato di fatto uno strumento per distruggere le famiglie. Il sistema non ha fatto altro che aprire una caccia alla strega contro mio marito e ha causato un terribile danno a tutta la mia famiglia.

Smettetela di perseguitare e criminalizzare i padri, e assicuratevi che siano osservati i principi fondamentali di uguaglianza e di giustizia: sono sicura che così facendo noterete un significativo sgravio sul carico di lavoro dei tribunali. Deve prevalere la giustizia, non l’ideologia dell’odio contro gli uomini.

Cordialmente
Nezha Saad

Fonte

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