giovedì 22 marzo 2012

Chi non versa gli alimenti alla ex va in carcere

È di oggi la notizia di un 47enne di Altivole (Treviso) arrestato dai Carabinieri per una sentenza passata in giudicato e riguardante la violazione dell'obbligo di assistenza familiare a favore della ex moglie. L'uomo non avrebbe versato gli alimenti e per questo è stato condannato a 3 mesi e 10 giorni di reclusione; i militari hanno pertanto trasferito il trevigiano in carcere.

Questo fatto dimostra quanto siano falsi i dati riportati finanche da istituti statistici accreditati secondo i quali la maggior parte dei separati non adempierebbe agli obblighi economici stabiliti dalla legge: secondo l'ISTAT ad esempio, il 75,6% degli uomini divorziati non verserebbe regolarmente denaro per l'ex coniuge e i figli. Ora, loro vorrebbero far credere che 3 persone separate su 4 rischierebbero il carcere pur di non pagare gli alimenti? Chi crede a simili sciocchezze? Il Tribunale tra le altre cose può richiedere il decurtamento coatto dallo stipendio nel caso il divorziato non voglia pagare spontaneamente il dovuto all'ex consorte. Si potrebbe obiettare che se l'uomo lavora in nero questo provvedimento giudiziale non può essere applicato; ma sulla base di quale criterio l'ISTAT è in grado di stabilire che 3 separati su 4 lavorano in nero? Sono andati a chiederlo agli interessati, che hanno ammesso candidamente di evadere gli obblighi contrattuali percependo uno stipendio in nero? O hanno forse consultato una documentazione che in realtà non esiste, in quanto per le prestazioni in nero non vengono stipulati contratti di alcun genere? In ogni caso, chi rischierebbe il carcere per una cosa simile?

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martedì 20 marzo 2012

Davide Insinna, la Nuovi Orizzonti e la menzogna di genere

Il signor Davide Insinna, presidente della Nuovi Orizzonti e gestore di un gruppo Facebook (reperibile al seguente indirizzo) che si è poi dimostrato essere solo una plateale clonazione di un'altra pagina, intitolata con lo stesso nome ma creata molto prima (1 marzo 2008), ha recentemente postato sul suddetto blog o pagina che dir si voglia una notizia secondo cui un certo Abd-el-Rahman Ayoub, cittadino francese di origine giordana, sarebbe stato riconosciuto colpevole di abusi sulla figlia di 8 anni da un giudice di Lilla che avrebbe però disposto per lui il non luogo a procedere in quanto musulmano praticante. Secondo l'autrice dell'articolo, tale Alessandra Boga, il magistrato avrebbe in realtà assolto l'uomo in quanto «essendo [egli] musulmano praticante ed emigrato in Francia solo di recente non si può pretendere di applicare alla sua mentalità la nostra moralità; in Giordania, suo paese di origine, questo tipo di rapporti sessuali [stupro di una minorenne] sono infatti ritenuti, sulla base del Corano, un fondamentale rito di iniziazione». La "giornalista" pubblica sul blog notizie.it un'immagine di questo Ayoub, la stessa che potete osservare a fianco; peccato che questa foto si riferisce in realtà a tale Elias Abuelazam, serial killer israeliano trapiantato negli Stati Uniti. La stessa ricerca del nome Abd-el-Rahman Ayoub su Google produce soltanto risultati che usano quel blog come fonte primaria.

Insomma, una bufala. E il signor Insinna, proprio per istigare l'odio di genere e al solo ed unico scopo di criminalizzare il maschio come richiesto dalla sorellanza, è andato a cercare con il lanternino proprio una bufala particolarmente odiosa e tesa a dimostrare quanto il genere maschile abbia istituzionalmente inclinazioni pedofile e possa soddisfare le proprie voglie col consenso sociale e finanche con l'approvazione della legge. Era evidente che una notizia simile costituisse solo una calunnia, ma a quanto pare molti non se ne sono accorti. Un altro punticino per la Grande Sorellanza e per la Nuovi Orizzonti.

Aggiornamento: non ho resistito alla tentazione di far notare la cosa alla "giornalista", che ha prontamente cancellato l'articolo. No worries, potete trovarlo sulla cache di Google qui.

domenica 11 marzo 2012

La lettera scarlatta del nuovo millennio

Non si fermano le contestazioni contro Strauss-Kahn: dopo la protesta delle Femen, è arrivata quella delle studentesse femministe di Cambridge, presso la cui Università DSK è stato invitato a tenere una lectio magistralis sulla crisi finanziaria. Alla manifestazione secondo la polizia avrebbero partecipato circa 200 persone. Una conferenza parallela è stata tenuta da Douglas Wigdor, l'avvocato della cameriera del Sofitel, invitato dal comitato per i diritti delle donne del sindacato studentesco dell'ateneo, contrario all'arrivo dell'ex presidente del FMI. Secondo le femministe, l'invito a DSK sarebbe derivato dalla sua «notorietà criminale» (è stato recentemente incarcerato e poi subito rilasciato in Francia per un non ben precisato favoreggiamento alla prostituzione), mentre per Wigdor l'atto di offrire a Strauss-Kahn «una piattaforma dalla quale esprimersi rappresenta un affronto a tutte le vittime di molestie sessuali». Striscioni e cartelli ostili come quelli che vedete nelle immagini dimostrano le conseguenze della menzogna feminazista: quando una donna decide di denunciare, anche se poi alla fine si scopre essere una bugiarda come nel caso della Diallo, la vittima delle accuse rimane marchiata. Non è la calunniatrice a finire su un ipotetica lista nera, no; anzi, lei continua a ricevere il supporto della folla in quanto "vittima". La società matriarcale ha voluto che sia sempre il maschio a subire l'onta perpetua ed essere "bollato" come stupratore a vita. Non bastano l'umiliazione delle manette, il carcere (DSK è rimasto sei giorni nell'inferno di Rikers Island, il penitenziario newyorkese dove vengono ospitati i peggiori criminali, veri o falsi che siano), la perdita di una posizione di prestigio e di ambizioni future; è necessaria l'infamazione sine die.
Si noti che quello che è successo a Strauss-Kahn può accadere a chiunque: la violenza sessuale è una fattispecie che non richiede virtualmente alcuna prova che non sia la parola della presunta martire. Solo le inconsistenze nella parola della "carceriera" possono salvare il malcapitato. Possiamo ritenere tuttavia che questo accada piuttosto sovente, visto che il 41% delle accuse di stupro vengono etichettate come fasulle. Ma cosa succede poi, dopo, al malcapitato, è quello che ci preoccupa maggiormente: è la condanna sociale il danno più pesante che egli deve subire. La calunniatrice, una volta accertate le menzogne, non si deve preoccupare di niente: continuerà a ricevere lo status di vittima e nessuno si sognerà anche solo lontanamente di indagare su di lei. Nessun procuratore si adopererebbe ad esempio a perseguire la Diallo, se vuole conservare il proprio posto: la pressione femminista è troppo forte. Certo, dovrà rinunciare al vitalizio e accontentarsi dei soli introiti derivanti dalle interviste a pagamento, ma non ci pare questa una grave ingiustizia, onestamente. Ma quella che è la vera vittima, invece, dovrà sopportare per l'intera esistenza ciò che il matriarcato ha disposto per lui in quanto essere geneticamente predisposto alla violenza. Strauss-Kahn insegna.

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giovedì 8 marzo 2012

Sette mesi di carcere per una violenza mai commessa, assolto

Messina, 4 marzo 2012 — Si è fatto sette mesi di carcere con l'accusa di aver molestato una collega cameriera (nello specifico, il capo di imputazione era violenza sessuale) per poi essere assolto: il fatto non sussiste, hanno sentenziato i giudici. Alam Suhadul, 32enne del Bangladesh, è stato difeso dall'avvocato Giovanni Cicala e da Simone Giovannetti.

I fatti risalgono al 10 settembre 2010; i due lavoravano insieme in un ristorante di Vulcano. Lei, una 21enne palermitana, lo aveva denunciato per molestie aggravate poi sfociate nell'imputazione di violenza sessuale. La giovane, rimasta anonima, in tribunale si è più volte contraddetta; a favore dell'assoluzione hanno giocato anche numerose testimonianze depositate dal titolare del locale e dai colleghi di lavoro.

martedì 6 marzo 2012

Il negazionismo di Licia Palmentieri

Vorremmo segnalare un commento fatto da una certa Licia Palmentieri, una tizia nota anche con il nome di Viviana Hammill (vh) e in intimità con quel gran pezzo d'uomo che è il dottor Mazzeo, su Facebook. Si tratta nella fattispecie di un dialogo che per qualche motivo ha tirato in ballo la storia di Angela L. La Palmentieri (non a caso ribattezzata Viviana la bugiarda) scrive a proposito
Per me non è escluso che si sia trattato di un pastrocchio in buona fede né che invece la bambina non sia stata convinta dai genitori stessi per una sindrome di Stoccolma.
I ricordi falsi, cioè quelli ammorbati dalla soggettività, si formano contemporaneamente alla formazione del sé.

insomma, secondo lei l'obbligare una bambina di sette anni ad accusare di pedofilia il suo papà con la minaccia che se non lo avesse fatto non avrebbe più rivisto la sua mamma e sarebbe rimasta rinchiusa a vita in un centro Cismai (come testimoniato da agenti delle forze dell'ordine in Tribunale) sarebbe un errore fatto in buona fede. Come sarebbe stato un errore in buona fede l'aver estorto la parola "pisello" ad Angela in occasione di quell'unica visita in cui era assente il perito di famiglia e la piccola è rimasta sola con l'abusologa; probabilmente per questa tizia non contano nulla le parole scambiate tra la Malacrea e Forno e intercettate dalla polizia. E neanche quanto riportato dagli ermellini sul dispositivo di assoluzione del padre. La Palmentieri ipotizza addirittura che i suoi genitori l'abbiano plagiata a vita costringendola ad accettare gli abusi che in realtà ci sarebbero stati: non sappiamo bene come possano aver fatto a corromperla visto che non potevano avere contatti con lei da quando l'hanno prelevata da scuola, ma secondo questa delinquente (non sappiamo come altro definirla) si potrebbe ipotizzare una sorta di sindrome di Stoccolma. Evidentemente questa tizia non sa che gli effetti della sindrome di Stoccolma si manifestano in prossimità dell'evento traumatizzante e scemano con il tempo: di fatto Angela avrebbe inizialmente accusato il padre salvo poi acquisire con il tempo la consapevolezza del fatto che nessun abuso c'era mai stato. Esattamente al contrario. In ogni caso nessuno ha mai parlato in psichiatria di sindrome di Stoccolma in relazione ad eventi che non siano rapimenti e/o accadimenti in cui si instaura un rapporto del tipo prigioniero-carceriere. Insomma, questa gente si prodiga tanto per negare patologie studiate e proposte da psichiatri di fama salvo poi inventarsi sul momento sindromi quali questa qua o anche quell'altra, la sindrome di violenza domestica per procura (http://femminismo-a-sud.noblogs.org/post/2010/07/03/violenza-domestica-per-procura-domestic-violence-by-proxy/). Ecco il motivo per cui noi ci teniamo molto che questa gente la smetta di insozzare i media con le loro menzogne e le loro frodi; come già abbiamo fatto per un altro episodio, invitiamo a segnalare il gruppo della Palmentieri che si trova al seguente indirizzo (potete farlo solo se avete un account Facebook): http://www.facebook.com/Noallaviolenzasulledonnevero2.

lunedì 5 marzo 2012

Tenta di ammazzare il marito a coltellate: ai domiciliari

Toano, 23 febbraio 2012 — Aveva accoltellato il marito alle spalle, ha raccontato al giudice che lui si era ferito da solo e ora è ai domiciliari  continua...

Accusato di sevizie sulla moglie, assolto: lei era consenziente

Si procurava da sola lesioni facendo uso di lime da falegname e bisturi durante il sesso, perché le piaceva il dolore. Ma il 10 luglio 2006 decise di presentarsi al pronto soccorso del San Bortolo raccontando che il marito l'aveva legata al divano, seviziata e umiliata con un bisturi; la donna in effetti aveva una lama infilata tra le cosce. Immediato l'intervento della polizia, che ha arrestato R. F., 45enne di Torri di Quartesolo (non è stato riportato il nome completo a tutela della donna) portandolo in carcere. L'uomo ha passato qualche mese tra prigione e arresti domiciliari.

Nel corso del processo è emerso che la signora, nel frattempo separatasi, era autolesionista e le sevizie, seppur discutibili quanto si vuole, erano consenzienti: la donna era d'accordo con lui a farsi trattare in quel modo. Il pm aveva sollecitato una condanna a 3 anni e 9 mesi, ma il collegio, considerati fatti, ha deciso di prosciogliere l'imputato che adesso sta valutando l'ipotesi di chiedere i danni per l'ingiusta detenzione.

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domenica 4 marzo 2012

Aveva fatto ammazzare un ragazzo inventandosi un falso stupro. Condannata per omicidio, ma con pena sospesa

Sebbene la notizia sia un po’ datata, abbiamo deciso di pubblicarla ugualmente in quanto apparsa tre giorni fa sul nostro omologo anglosassone, The False Rape Society

Dublino (Irlanda), 6 febbraio 2009 — Un uomo e la sua ex ragazza sono stati condannati per l’omicidio di un giovane nigeriano. Il 26enne Joseph Sullivan aveva assoldato un killer dopo che la 18enne Carol Craig gli aveva riferito di essere stata violentata nell’appartamento di Sumbo Owoiya (18); in realtà lo stupro non era mai avvenuto. Owoiya è stato freddato nella sua abitazione (The Court, Dunboyne Castle, Dunboyne, Co Meath) da un sicario, che non è mai stato catturato; Sullivan e Craig sono stati invece rinviati a giudizio e dichiarati colpevoli in quanto mandanti dell’assassinio.

La 18enne aveva detto all’allora fidanzato di essere stata violentata proprio nell’appartamento del nigeriano che è stato poi ucciso. Sullivan si è per questo messo in contatto con un uomo allo scopo di “scovare” il colpevole dell’aggressione. John Aylmer, della procura distrettuale, ha dichiarato che il terzo componente della banda era armato e che ha sparato ad Owoiya dopo che questi si era affacciato alla porta di ingresso.

Sullivan è stato condannato per concorso morale in omicidio a sette anni di carcere; la pena non è stata sospesa. Il giudice ha deciso però di sospendere per intero la sentenza a tre anni e mezzo inflitta alla Craig; sembra che alla base della decisione vi sia stata l’esibizione del ben noto vagina pass.

venerdì 2 marzo 2012

I rifugi antiviolenza, cosa sono e quali sono i loro scopi

Riportiamo qui la traduzione di una lettera scritta da una donna canadese ospitata in un centro antiviolenza al giudice che si sarebbe dovuto occupare del procedimento a carico di suo marito, accusato di violenza domestica. Ringraziamo centriantiviolenza.com per la segnalazione.
Alla cortese attenzione del Giudice McMurtry,

[…]

L’anno scorso, in un raptus di rabbia e frustrazione contro mio marito, chiamai la polizia. Ero in cura all’epoca, e ancora oggi soffro di depressione e di un grave disturbo ansioso. Quando litigo con mio marito, il mio disturbo mi rende aggressiva e fa sì che io voglia causargli dei problemi. La mia reazione quel giorno fu quella di chiamare la polizia.

Le forze dell’ordine mi obbligarono ad accusarlo di qualcosa; in un momento in cui la mia mente era annebbiata e non ragionavo razionalmente, dissi alla polizia che mio marito mi aveva minacciato di fare del male a me e ai nostri figli. Ho visto così tanto sui giornali e in TV riguardo presunti abusi di uomini ai danni delle mogli, che quella fu la prima cosa a venirmi in mente quando la polizia arrivò a casa nostra. Non c’era stata assolutamente alcuna violenza fisica alla base della mia chiamata, assolutamente nessuna. In quel momento tuttavia, non potei immaginarmi le implicazioni delle mie azioni dato che agivo spinta dalle emozioni, piuttosto che dalla ragione.

Gli agenti non mi chiesero mai se ci fosse stato qualche motivo alla base della mia decisione di depositare quella denuncia, né sembrava importasse loro qualcosa. Non mi fu dato tempo di riordinare razionalmente i miei pensieri. La polizia semplicemente prese le mie parole come se fossero la verità assoluta. Immediatamente, mio marito fu arrestato e messo in carcere, dove passò sei settimane. Dopo il suo arresto, diventai ancora più ansiosa e ebbi timore che le autorità potessero fare qualcosa di sbagliato.

Fui mandata in un centro antiviolenza. Una volta entrata lì dentro le impiegate del centro, la maggior parte delle quali sono esse stesse donne divorziate, mi sottoposero a un lavaggio del cervello affinché io dicessi alla polizia altre cose negative sul conto di mio marito, per inguaiarlo ulteriormente. Mi sentii forzata a seguire le loro istruzioni legali. Secondo la mia opinione, i rifugi antiviolenza non dovrebbero fornire consulenza legale alle donne o spingerle a compiere determinate azioni giuridiche; questo dovrebbe essere materia degli avvocati. La posizione di dipendenza presso un centro antiviolenza spinge le donne a seguire i consigli legali forniti dalle operatrici, a sentirsi obbligate a ubbidire. Nel rifugio, sia io che i bambini fummo bombardati di informazioni su quanto gli uomini possano essere violenti; personalmente credo che l’esposizione a materiale audio-visivo sulla violenza domestica abbia influenzato negativamente i miei figli al punto che essi stessi adesso credano che gli uomini, in generale, siano dei violenti. Come ho scoperto in seguito, i rifugi antiviolenza non costituiscono solo un posto dove le donne possono andare per un aiuto, ma un luogo dove donne e bambini vengono rieducati a odiare gli uomini e le mogli incoraggiate a divorziare dai loro mariti e a distruggere le loro famiglie. […] I miei bambini sono stati esposti a più abusi nel centro di quanto siano mai stati esposti al di fuori di esso [ si legga anche la storia di Angela L. per un interessante parallelo con la situazione italiana ].

Quando cercai di ammettere il mio errore davanti alla procuratrice, mi fu detto fondamentalmente che ero una bugiarda e che avrei dovuto mantenermi fedele alla denuncia originale che fu fatta sotto la pressione della polizia e mentre ero in stato di ansia. Mi fu detto che le donne ritrattano le loro querele solo perché i mariti le minacciano. Mi fu detto che sarei stata arrestata se avessi provato a cambiare la mia versione. Quando provai a convincere il mio legale a scrivere una lettera alla Corona per spiegare le circostanze, egli si rifiutò di seguire le mie istruzioni. Era come se lui non volesse andare contro quello che sapeva essere ciò che la Corona e la polizia volevano, ossia che mio marito si proclamasse colpevole; si rifiutò di rispondere alle mie chiamate e alle mie lettere. Il suo ufficio anzi incaricò il Legal Aid [ l’ufficio di tutela legale gratuita ] di rappresentarmi. Scrissi una lettera alla Corona io direttamente, ma non ricevetti alcuna risposta.

In tutto questo orribile complotto, nessuno era interessato ad aiutare me o i miei bambini; tutti desideravano solo etichettare me come vittima e mio marito come violento. Quello che capisco adesso è che la sola cosa che il sistema desiderava era condannare mio marito e che avrebbe usato ogni mezzo, compresa l’intimidazione e la minaccia di togliermi i bambini, per ottenere quel risultato.

Mi recai in tribunale durante una delle udienze preliminari per provare a raccontare la verità, ma quando la procuratrice mi vide, non mi consentì di parlare. Una volta al contrario, durante un’udienza in cui era presente mio marito, i rappresentanti del rifugio antiviolenza non ebbero alcun problema ad ottenere un incontro privato con il giudice per discutere il caso. Mi sembrò che la procuratrice considerasse più importante quello che avevano da dire le operatrici del centro di ciò che invece avevo da dire io, la “vittima”. Tutto sembrava orientato alla condanna di mio marito e ad impedire che egli potesse vedere i nostri figli, a prescindere dal prezzo che io e loro avremmo dovuto pagare.

Mio marito fu costretto a licenziarsi grazie all’intervento delle autorità che hanno contattato il suo datore di lavoro. Io e i miei quattro figli avremmo dovuto vivere a carico del sistema previdenziale. I bambini piangevano perché volevano vedere loro padre, che è stato sempre un buon padre per loro. Il Children Aid mi minacciò di togliermeli se avessi permesso a mio marito di vederli. Loro, lui e io stessa abbiamo ricevuto un gravissimo danno finanziario ed emotivo dal sistema della giustizia.

Sono passati più di nove mesi da quando questa storia è iniziata. Fino ad oggi, quelli del sistema ancora non vogliono ascoltarmi né preoccuparsi dei miei figli. Sembra che il sistema non voglia ammettere che una donna possa compiere degli errori come chiamare la polizia in un attacco d’ira. Basandomi sulla mia esperienza, posso dire che criminalizzare e perseguitare i padri, a prescindere dal danno subito dai bambini, sia lo scopo finale del sistema.

Da quando questa storia è iniziata, sono stati spesi migliaia di dollari pubblici e innumerevoli ore sono state trascorse dalla polizia, dai giudici e dai procuratori sul mio caso. Io sono l’unica testimone, ma ancora la procura esercita pressioni affinché mio marito si dichiari colpevole e nel frattempo mi intima di fare quello che vogliono loro. Come può proclamarsi colpevole se non lo è? Io non voglio che dichiari la sua colpevolezza per qualcosa che non ha fatto. Che genere di giustizia sarebbe?

Sembra che vi sia un sistematico pregiudizio contro i padri da parte della polizia e delle procure per quanto riguarda la violenza domestica, al punto che la giustizia è da considerarsi ideologizzata e maliziosamente schierata. Io ho un figlio maschio e mi preoccupa molto pensare a quello che potrebbe attraversare a causa di questo sistema quando diventerà grande. Sono esterrefatta da quello che ho visto succedere e da come il reato di violenza domestica sia diventato di fatto uno strumento per distruggere le famiglie. Il sistema non ha fatto altro che aprire una caccia alla strega contro mio marito e ha causato un terribile danno a tutta la mia famiglia.

Smettetela di perseguitare e criminalizzare i padri, e assicuratevi che siano osservati i principi fondamentali di uguaglianza e di giustizia: sono sicura che così facendo noterete un significativo sgravio sul carico di lavoro dei tribunali. Deve prevalere la giustizia, non l’ideologia dell’odio contro gli uomini.

Cordialmente
Nezha Saad

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giovedì 1 marzo 2012

Per il reato di tentato omicidio, gli uomini vanno in carcere, le donne no

Oltre alla notizia che avevamo pubblicato ieri, quella della coppia di Fidenza che ha cercato di assoldare un killer per far fuori una 66enne e che ha portato l'uomo in carcere e la donna ai domiciliari (leggi l'articolo), vorremmo pubblicare due fatti di oggi riguardanti sempre il reato di tentato omicidio. Il primo riguarda l'arresto di un palermitano, Giuseppe Trapani, che ha fatto irruzione nell'abitazione di alcuni suoi congiunti con una motosega minacciando di morte tutti i presenti, ma che fortunatamente non ha prodotto alcun danno oltre alla porta squarciata; lui è finito nel carcere dell'Ucciardone di Palermo. Il secondo è quello di una 55enne ucraina, rimasta anonima a differenza del Trapani, che ha cercato di soffocare con un cuscino il marito 75enne che stava dormendo; il fatto è avvenuto a Tremestieri Etneo, in provincia di Catania, e ha portato la donna agli arresti domiciliari presso l'abitazione di un parente. Continua così ad essere verificata la tesi, già teorizzata altrove, secondo cui l'Autorità Giudiziaria applica sistematicamente il regime del carcere per gli uomini imputati di tentato omicidio e quello dei domiciliari per le donne. Visto che riteniamo questa applicazione differenziata della legge un vero e proprio abuso di potere, noi lo segnaliamo sperando che chi di dovere prenda provvedimenti.

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