sabato 28 gennaio 2012

Stilato il rapporto CEDAW: come insegnare alle donne a fare le vittime sempre e comunque

È stato pubblicato ieri il rapporto di Rashida Manjoo, relatrice dell’ONU sulla cosiddetta questione della “violenza di genere” (CEDAW), riguardante il trattamento che verrebbe riservato alle detenute nelle carceri italiane. Secondo la Manjoo le donne nelle prigioni nostrane avrebbero «difficoltà di accesso alle opportunità di studio e lavoro, difficoltà riconducibili alla mancanza di risorse e alle pratiche discriminatorie poste in essere dal personale delle strutture carcerarie [cioè dagli agenti di polizia penitenziaria, anche se non è specificato come l’azione di questi ultimi possa essere correlata alle pratiche di ammissione a tali risorse che, ricordiamolo, sono regolate dai Tribunali di sorveglianza ndr]».

Ed è la discriminazione il punto chiave della relazione CEDAW, anche se in effetti non è ben chiaro rispetto a cosa o a chi vengano attuate queste «pratiche discriminatorie». L’inviata dell’ONU infatti prosegue sostenendo come vi sia «disparità di trattamento da parte di alcuni giudici di sorveglianza nel riesame delle sentenze per la scarcerazione anticipata delle detenute che soddisfano i requisiti per misure alternative al carcere» e pure una «applicazione incoerente della legge sull’affidamento in comunità o sulla destinazione agli arresti domiciliari». Ricordiamo a questo proposito che in Italia vige una norma (Art. 275, comma IV, c.p.p.) che vieta la custodia in carcere per le donne con figli al di sotto dei 6 anni (e non dei tre come afferma anacronisticamente la Manjoo, per via di un emendamento approvato dalla Camera l’8 marzo 2011) a meno che non sussistano esigenze di particolare gravità; ed è probabilmente su questo punto che si scatena l’indignazione di simili associazioni, in quanto in alcuni casi a criminali plurirecidive accusate di reati particolarmente gravi (associazione mafiosa, omicidio, sequestro di persona e così via) non vengono concesse misure alternative al carcere anche se madri di piccoli con età inferiore ai sei anni. Va detto comunque che nella stragrande maggioranza dei casi invece il giudice concede l’attenuazione della detenzione. Un esempio recente ci è fornito dal caso di Stefania Citterio, accusata dell’omicidio di un tassista e scarcerata dopo pochi mesi dall’ICAM in cui alloggiava in quanto in attesa di processo con figli piccoli a carico, o quello di Suela Arifaj, che invece in carcere non ci ha messo piede per lo stesso motivo; i compagni delle due donne, accusati rispettivamente dei medesimi reati, sono al contrario rimasti in carcere visto che la succitata normativa non si estende ai padri.

Infine, la commissaria dell’ONU boccia l’ipotesi che le donne possano tenere con sé i figli in carcere in sede di espiazione della pena (nonostante la legge Finocchiaro preveda, al solito per le donne con figli al di sotto dei 6 anni, lo storno di due terzi della condanna) sostenendo che in questi casi è assolutamente necessario ricorrere al trasferimento in strutture apposite, quali le case famiglia.

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