Domenica 18 novembre a Parigi c’è stata la manifestazione di un gruppo cattolico contro i matrimoni e le adozioni gay, la cui introduzione è stata promessa in campagna elettorale dal neo-presidente Hollande. Il gruppo Civitas aveva indetto una protesta che si è svolta pacificamente lungo le strade della capitale francese; la situazione è degenerata quando un gruppo di provocatrici, a seno nudo e "vestite" da monache, ha fatto irruzione nel corteo con il preciso scopo di scatenare una reazione.
Le contestatrici appartenevano naturalmente al rinomato collettivo ucraino delle Femen, ormai presente in Europa con sedi in tutte le principali nazioni: il simbolo del movimento sono due cerchi colorati che presumibilmente rappresentano due seni. Come si apprende da qui, all'azione di disturbo ha preso parte la stessa Inna Shevchenko, leader e fondatrice del gruppo; qualche mese fa la donna si era trasferita a Parigi, eludendo a suo dire il controllo dei servizi segreti ucraini che la sorvegliavano (sempre secondo le fonti Femen) dopo il famoso episodio in cui un monumento sacro situato nel centro di Kiev era stato distrutto in segno di rispetto nei confronti delle Pussy Riot, la punk band russa recentemente condannata per blasfemia. La Shevchenko, come vi abbiamo accennato in precedenza, aveva abbattuto una croce lignea di Cristo usando una motosega; è piuttosto curioso che il cosiddetto regime ucraino non l'abbia posta agli arresti dopo lo scempio, se è vero come dicono loro che Janukovyč complotta con le autorità religiose per reprimere il dissenso e le proteste femministe. Comunque siano andate le cose, la bionda esibizionista è riuscita a raggiungere la Francia dove nel frattempo ha partecipato ad alcuni show televisivi. In occasione dell'evento promosso da Civitas, le esponenti del club parigino si sono mescolate alla folla brandendo alcune bombolette contenente uno spray a base di acqua e farina che hanno battezzato Holy Sperm e che hanno spruzzato contro i cattolici, rendendo estremamente sdrucciolevole il manto stradale. Ma la notizia riportata da quotidiani e tabloid francesi (e poi ripresa con i medesimi toni dal resto della stampa internazionale) è ovviamente quella dell'aggressione da parte di alcuni manifestanti conservatori alle ragazze in topless. Eloïse Bouton, la rappresentante delle Femen a Parigi, ha dichiarato che diverse sue compagne sono state selvaggiamente picchiate: la Shevchenko avrebbe riportato un dente rotto e lividi su tutto il corpo, un'altra ha rischiato un trauma cranico mentre una terza presentava dei tagli al labbro. Non sapremo mai se la responsabilità reale sia da attribuirsi agli ultra-cattolici o se le femministe, il cui corpo era coperto di slogan peraltro banali e scontati come fuck religion e che si erano portate dietro il consueto drappello di fotografi desiderosi di immortalare contenuti "scandalistici", non si siano piuttosto ferite da sole scivolando sullo sperma sacro da loro stesse sparso in giro, fatto sta che la polizia ha eseguito quattro arresti tra i presenti allo scontro dei quali tuttavia nessuno è risultato essere membro di Civitas. La Bouton ha ammesso che la contro-manifestazione era stata organizzata con il fine di provocare una reazione, ma di non essersi aspettata «un'aggressione così veloce e violenta».
Le conseguenze del diverbio non si sono fatte attendere: il segretario socialista Harlem Desir, insieme ad altri sei deputati della stessa coalizione, ha chiesto al Ministro dell'Interno di imporre lo scioglimento immediato dell'Istituto Civitas, l'associazione di diritto a cui fa capo il movimento omonimo. A parte il singolare concetto di democrazia che sembra covare nella fazione di Hollande, vale la pena riportare la scoperta fatta da Ukraina Viaggi. Una giornalista televisiva ucraina, sfruttando la sua avvenenza e la sua taglia di reggiseno, sarebbe riuscita ad infiltrarsi all'interno delle Femen: il metodo di reclutamento è del tipo catena di Sant'Antonio, nel senso che si diventa Femen solo dopo essersi fatta fotografare a seno scoperto da una delle attiviste. Lo scoop sarebbe il seguente: tutte le azioni di protesta vengono generosamente pagate. L'infiltrata avrebbe ad esempio percepito 1000 euro al giorno solo per la partecipazione alla contestazione anti-islamica promossa sempre a Parigi nel marzo scorso. Come se non bastasse, lo stipendio mensile di ciascuna esponente del movimento è di 1000 dollari mensili; le dirigenti del centro di Kiev ricevono invece 2500 dollari ogni mese. Ci sarebbe da chiedersi chi è che finanzia le comparsate delle belle femministe: qualcuno sostiene che dietro queste manifestazioni ci sia il magnate statunitense George Soros, principale finanziatore del gruppo di protesta Otpor! nato in Serbia nel 1998 in opposizione al regime di Slobodan Milošević e proprietario del simbolo col pugno chiuso rivolto verso l'alto.
Secondo queste fonti, Otpor! avrebbe assunto un ruolo di primo piano in alcune delle cosiddette Rivoluzioni Colorate, movimenti popolari per lo più giovanili che hanno portato al rovesciamento di governi invisi all'amministrazione americana e soprattutto alle lobby economiche e finanziarie che gestiscono il monopolio delle risorse strategiche: tra i paesi coinvolti si possono citare, oltre alla Serbia, l'Egitto e l'Afghanistan. Come vi avevamo accennato nel post su Amnesty International, alcune coincidenze farebbero pensare all'esistenza di meccanismi accuratamente orchestrati con lo scopo di sobillare in certe nazioni chiave rivolte, colpi di stato o più semplicemente indottrinare il popolo e convincerlo a destituire il proprio leader sostituendolo con uno più "aperto" e disponibile ad accogliere le istanze occidentali e il modello democratico d'oltreoceano. Non è difficile capire quale sia il criterio di selezione dei paesi che vengono coinvolti in questo genere di processi: si tratta ovviamente dei territori più ricchi di risorse importanti come il petrolio. Nel caso di Femen e Pussy Riot, l'obiettivo dei capitalisti come Soros è probabilmente quello di mettere le mani sui ricchi giacimenti di gas naturale russo attualmente controllati da Gazprom: non è un mistero del resto che il circuito Riot grrrl (quello di cui fanno parte le Pussy Riot) simpatizzi per Otpor!. Il simbolo del movimento può essere ritrovato ad esempio sulla maglietta che la Tolokonnikova indossava in occasione del processo a suo carico; e gli innegabili collegamenti esistenti tra Riot grrrl e Femen parrebbero confermare la tesi di un coinvolgimento di Soros per quanto concerne il finanziamento delle attività di protesta organizzate dal collettivo ucraino.
Ma il business femminista non è solo mammelle al vento e eiaculazioni liturgiche tramite estintori: è anche e soprattutto approfittarsi delle persone onde poter raggiungere obiettivi di natura economica. Vi avevamo già parlato del giro delle case-famiglia e di quello dei centri antiviolenza, oggi segnaliamo un fatto piuttosto importante nella vita dell'ex presidente del FMI Dominique Strauss-Kahn: il banchiere francese ha infatti concluso proprio ieri la trattativa con la cameriera del Sofitel che lo aveva falsamente incolpato di stupro. DSK è stato prosciolto per manifesta insussistenza della denuncia (anche in quell'occasione le Femen francesi avevano inscenato una protesta vestite da inservienti, ma erano dotate di reggiseno il che farebbe ipotizzare l'esistenza di una corrente moderata all'interno del movimento), ma ha dovuto sborsare alla sua accusatrice l'esorbitante cifra di 6 milioni di dollari: la donna, subito dopo la chiusura del procedimento penale, aveva infatti avviato una causa civile contro il suo presunto molestatore per gli stessi identici motivi. Strauss-Kahn dovrà contrarre un mutuo e farsi prestare 3 milioni dalla ex moglie Anne Sinclair per poter onorare il dovuto. La profezia di Ophelia
tranquillo, questo tipo è pieno di soldi, so quello che faccio
si è così avverata: l'umile cameriera ha trovato la sua gallina dalle uova d'oro e adesso potrà godere di un patrimonio che è enormemente superiore rispetto a quello di uno degli uomini più potenti del pianeta. Un esempio per tante potenziali eroine femministe, Femen comprese.
Qualche
giorno fa, la nota ONG Amnesty International ha lanciato una raccolta
fondi a favore delle donne. Donne che lottano per i loro diritti, che
vengono imprigionate, condannate, torturate, fatte tacere «perché donne»:
tra loro, vengono citate l'avvocatessa iraniana Nasrin Sotoudeh e altre
tre dissidenti, una siriana, una egiziana e l'altra saudita. La
campagna Io sono la voce ha avuto moltissime adesioni e la cifra accumulata al momento sfiora i 25mila euro (l'altro ieri era a 13mila). Testimonial di eccezione, come si apprende da qui, è Alessandro Gassman, del quale possono essere reperiti alcuni interventi a favore del genere femminile sul sito di Antifeminist
Nella mia terza età vorrei diventare semplicemente un uomo oggetto e
occuparmi dell’intrattenimento di meravigliose creature. Sugli uomini
condivido il pensiero di mio padre. Se il mondo fosse governato dalle
donne oggi ci troveremmo in una situazione migliore. Le ritengo
superiori ai maschi in tutto. Tranne in una cosa: noi siamo più bravi a
raccontare fiabe, ci sappiamo fare con il lato ludico in generale
Sono più sagge, più determinate, più coraggiose, anche più lucide di noi
uomini. Papà lo ripeteva sempre e aveva ragione: sono meglio in tutto,
tranne che in una cosa. Loro non sanno scrivere e raccontare le favole.
Lasciamo a noi uomini il ruolo dei pagliacci e consegniamo alle donne il
compito di governare, di guidare. Sarebbe davvero straordinario. A loro
il timone, a noi l’intrattenimento
Amnesty
da sempre è in prima linea per quanto riguarda la difesa dei diritti
delle donne, a volte a ragione ma sovente alquanto a sproposito, tanto
da far sospettare che il suo interesse non sia tanto quello di difendere
generici e nobili principi di uguaglianza e giustizia sociale quanto
salvaguardare i "privilegi di qualcuno". Partiamo ad esempio da una
questione che riguarda da vicino la tutela delle donne, ossia il
fenomeno della violenza sessuale. Si tratta certamente di una piaga del
nostro tempo, un meschino atto di rivalsa nei confronti di chi si trova
in condizioni di inferiorità fisica e non può difendersi; sul blog
delle Pari Opportunità si parla spesso di questo problema, anche se
naturalmente si insiste soprattutto su aspetti che in genere vengono
trascurati dalla stampa mainstream.
Relativamente a quanto andremo a esporre, sarebbe importante che il
lettore provasse un attimo a liberarsi da pregiudizi e stereotipi come
quello di immaginarsi lo stupro necessariamente come un atto sanguinario
di sottomissione, violenza fisica e disintegrazione psicologica: questa
in effetti è la schematizzazione mentale tipicamente associata a tale
concetto e derivante dal fatto che, in origine, esso era inteso
esattamente in quella maniera. Con il tempo tuttavia, il termine ha
abbracciato per analogia una varietà immensa di significati e
connotazioni diverse tanto da essere, come cercheremo di argomentare più
avanti, del tutto snaturato. Molte organizzazioni, tra cui quelle
giuridiche, al giorno d'oggi usano la parola "stupro" per designare
determinate condotte che con l'immagine culturale da essa trasportata
(evocativa di esperienze drammatiche e fomentatrice di rabbia e sdegno
nel cuore dei "non addetti ai lavori") non hanno, oggettivamente, niente
a che fare.
Amnesty
lamenta il basso tasso di condanne per violenza sessuale che vengono
comminate in Svezia, come del resto in altri Stati: su un certo numero
di uomini rinviati a giudizio per stupro, solo pochi vengono condannati.
La sedicente organizzazione per la difesa dei diritti umani attribuisce questo fatto a «norme di genere profondamente radicate nella
cultura patriarcale del paese», sostenendo che in definitiva i
violentatori svedesi «godono dell'impunità». Questi sono ragionamenti
che vi avevamo già documentato, e pongono il loro fondamento nell'assunto secondo cui
un
maschio accusato da una donna di violenza è sempre colpevole, e se
viene assolto in tribunale è solo perché non ci sono prove per
inchiodarlo
è molto interessante notare che in questa maniera Amnesty si professa, de facto,
sostenitrice del principio della presunzione di colpevolezza,
demonizzando l'istituto del processo penale che sarebbe, sulla base di
questa interpretazione, totalmente inutile e anzi dannoso perché
fornirebbe garanzie a persone che sono colpevoli a priori; sarebbe in
sostanza una sorta di adesione al metodo Forno basata sulla concentrazione del potere giudiziario nelle mani delle Procure, delle organizzazioni pedocriminali che li controllano e dei centri antiviolenza
che spingono, o addirittura obbligano, le donne a denunciare a
prescindere dall'esistenza di reali abusi. Implicitamente si richiede in
questa maniera l'istituzione della condanna senza appello per gli
accusati di stupro, dell'arresto preventivo come punizione, della marchiatura a fuoco
sulla base di fatti non dimostrabili in sede legale ma valevoli nell'ottica
secondo cui "la donna che accusa ha sempre ragione". Del resto, come si
apprende frequentando questi ambienti, un procedimento a difesa di un
indagato per violenza sessuale finalizzato a verificare la consistenza
della versione fornita dall'accusatrice (versione che nella stragrande
maggioranza dei casi costituisce l'unica prova del presunto stupro ma
che, come abbiamo più volte puntualizzato,
è sufficiente a produrre una sentenza di colpevolezza qualora
l'imputato non riesca a dimostrarne l'infondatezza) sarebbe da
interpretarsi come un "processo alla vittima" o come un "secondo stupro", un osare mettere in dubbio la sua parola, un tentativo di far
emergere eventuali contraddizioni e menzogne che invece dovrebbero
rimanere segrete. Il fatto stesso di garantire a queste persone la
possibilità di difendersi, di portare prove a loro credito e di poter
essere giudicate in un contesto non inquinato dai pregiudizi che
inevitabilmente sorgono quando si ascolta una sola campana, sarebbe
sintomo di una mentalità patriarcale che "condanna le vittime". Insomma,
secondo Amnesty gli uomini prosciolti da accuse di stupro alla fine non
sono altro che violentatori rimasti impuniti.
La
realtà tuttavia è che il proscioglimento da un'accusa di violenza
sessuale richiede molto spesso che l'indagato riesca a dimostrare al di là di ogni
ragionevole dubbio la propria innocenza: se si escludono le condanne
derivanti da prove oggettive e dimostrabili, quali referti medici
attestanti lesioni o testimonianze di terzi, tutte le sentenze di
colpevolezza derivano dal fatto che l'imputato ha fallito nel convincere
la corte della propria estraneità alle accuse. Un esempio è la vicenda di Brian Banks,
la cui condanna è stata ribaltata non appena l'unico elemento
probatorio che lo inchiodava, cioè la parola della sua accusatrice, è
stato sconfessato da una "ritrattazione" catturata da una videocamera
nascosta. Questo dimostra, al di là di tutte le mistificazioni
provenienti da associazioni quali Amnesty o WAR, che chi viene
scagionato da un'imputazione per stupro è sicuramente innocente (almeno
in relazione allo specifico fatto contestato), mentre tra chi viene
condannato esiste un sommerso, difficilmente quantificabile, di
innocenti che scontano ingiustamente una pena detentiva. Questo
ovviamente è anche quello che avviene in Svezia, paese all'avanguardia
per quanto concerne la persecuzione del sesso maschile.
Come si apprende da varie fonti,
in Svezia esistono svariati provvedimenti che i procuratori possono adottare contro i sospettati di violenza sessuale. Innanzitutto,
chiunque ricada in questa sfortunata categoria può essere sottoposto a
detenzione, in isolamento 24 ore su 24 e in regime di totale incommunicado,
senza la necessità che vengano depositate accuse formali, per un
periodo di tempo virtualmente illimitato. Questo è quello che rischia
Assange, per il quale è stato spiccato un mandato di arresto a seguito
di alcune accuse che due femministe svedesi gli hanno rivolto: nello
specifico, il capo di imputazione (attualmente non ancora formalizzato)
sarebbe quello di "sesso a sorpresa", una particolare forma di "violenza
sessuale" che si concretizza quando il rapporto, inizialmente
consensuale, si tramuta in un possibile abuso ad esempio perché la donna
si addormenta durante il coito oppure il preservativo si rompe e il partner
non si accorge di questo fatto. In entrambi i casi (che poi sono le
accuse specifiche che gravano su Assange, anche se non si è ancora ben
capito se questo preservativo si sia rotto accidentalmente o non sia
stato addirittura manomesso prima della penetrazione, cosa che in teoria
potrebbe anche far scattare l'ipotesi di "stupro aggravato") si configura
secondo la giustizia del paese una condotta criminosa in quanto l'uomo
fallisce nel recepire una mutata condizione che potrebbe far supporre un
mancato consenso da parte della compagna. Ricordiamo che per queste
imputazioni Assange è stato oggetto di un mandato di arresto
internazionale, incarcerato in Gran Bretagna e poi costretto, dopo la
concessione della libertà vigilata, a una sorta di confino politico
all'interno dell'ambasciata dell'Ecuador in cui si è rifugiato e si
trova tuttora, impossibilitato ad uscirne in quanto riconosciuto idoneo
all'estradizione in Svezia. Al momento l'esecuzione del provvedimento
non è possibile solo perché nessuna forza nazionale può "assaltare"
un'ambasciata estera, ma naturalmente se l'informatico australiano
dovesse mai mettere piede fuori dall'edificio diplomatico sarebbe
immediatamente arrestato e tradotto nel paese scandinavo in cui rischia
una pesante condanna. Il timore principale di Assange è tuttavia quello
di venire successivamente estradato negli Stati Uniti, dove è
accusato di spionaggio insieme a Bradley Manning (da diverso tempo
detenuto in isolamento) e rischia la pena di morte. In questo contesto
emerge brillantemente Amnesty, che propone una soluzione a questo impasse:
secondo l'associazione, la Svezia si dovrebbe impegnare a non
trasferire l'uomo negli USA una volta scontata la condanna per "stupro".
In questa maniera, si garantirebbe il diritto di Assange a non essere
ammazzato per aver rivelato le magagne americane e nel contempo si
riconoscerebbe "giustizia" alle femministe che lo hanno accusato
È fondamentale che gli stati dimostrino di fare sul serio quando hanno a
che fare con denunce di violenza sessuale, rispettando sia i diritti delle
donne che chiedono tutela sia quelli delle persone accusate
conclude il comunicato.
Anna Ardin, una delle "vittime" di Assange (la bella addormentata, per
la precisione), è salita agli onori della cronaca in quanto autrice di
un manuale intitolato Guida alla vendetta contro il partner, pubblicato sul web prima di essere rimosso in concomitanza del deposito della denuncia (alcuni siti tuttavia sono riusciti a salvarne una copia): essa è scaturita non appena le due donne hanno saputo l'una dall'altra di aver avuto rapporti con il fondatore di Wikileaks.
La Ardin, femminista radicale da quando era all'università, è stata
ragguagliata sulla possibilità di sporgere la querela da una sua amica
poliziotta (secondo alcuni anche amante), la stessa che poi ha prodotto
il verbale trasmesso alla procuratrice di Stoccolma. «È ora di
sgonfiare quel pallone gonfiato ed esageratamente osannato di Julian
Assange» aveva poi dichiarato
l'agente sulla sua pagina Facebook. Data la natura delle imputazioni, è
evidente che il castello inquisitorio non può che fondarsi
esclusivamente sulla parola delle parti lese: ma come per l'appunto
dicevamo prima, questo non è importante perché alla fine l'onere della
prova spetta all'indagato. Le due donne sono assistite da Claes
Borgstrom, una specie di "avvocato dei sessi" che sostiene una campagna
finalizzata a estendere ulteriormente la fattispecie legale dello stupro
e ad assicurare di conseguenza più "stupratori" alla giustizia;
evidentemente riconoscere come reato il "sesso a sorpresa" o il "sesso
supplicato" (come si apprende da Femminismo a Sud, quel crimine che compie l'uomo quando riesce ad ottenere sesso dalla partner
solo dopo averla pregata insistentemente, compiendo così una sorta di
sottile costrizione psicologica) non è più sufficiente a contrastare
l'ondata di violenza sulle donne che attanaglia il paese e che la «cultura patriarcale» non è certo in grado di arginare.
La
femminista svedese Helene Bergman, la stessa che negli anni '60 aveva
coordinato le contestazioni delle donne che chiedevano un maggior
riconoscimento dei loro diritti, è stata costretta ora a riconoscere
l'eccessivo imbarbarimento di quello che con il tempo è diventato un politically correct «femminismo di Stato»:
la tendenza a riconoscere la donna come «vittima di default» da parte
delle istituzioni e la relativa condanna, senza processo né appello,
della controparte di sesso maschile da parte della stampa e
dell'opinione pubblica (tutti i media svedesi, come del resto svariate
altre testate occidentali come il Guardian e il NYTimes, hanno fatto
fronte comune nel dichiarare Assange come un «pericoloso stupratore
rimasto in libertà e da assicurare al più presto alle patrie galere»),
costituisce la conferma più lampante del fatto che ciò che inizialmente
si configurava come uno «strumento di liberazione» sia degenerato in un
mezzo «per far carriera, soprattutto in politica, nel servizio civile e
nel sistema giudiziario». Il problema, amplificato ad arte da televisioni e
giornali che sempre secondo la Bergman ormai si pongono solo l'obiettivo di
«educare la popolazione piuttosto che tenere il potere sotto controllo»,
della violenza e della discriminazione contro le donne ormai è
diventato l'arma più potente per penetrare la sensibilità delle persone
comuni e carpirne i consensi. Questo punto debole della società
occidentale, questa falla nelle capacità razionali e di critica dei
popoli che hanno vissuto il femminismo finendo per esserne travolti, è
proprio lo spiraglio che usano associazioni come Amnesty International
per fomentare lo sdegno nei confronti di quei paesi che in qualche
maniera osano rifiutare la dottrina e il modello svedese, e la rivolta
dei popoli contro i relativi governi. Rivolta che potrebbe tuttavia
avere diversi fini, non solo di natura politica e ideologica ma anche
economica.
Vi avevamo già parlato di Julija Tymošenko:
la ex premier ucraina è stata recentemente condannata per aver
finanziato indebitamente attraverso le casse pubbliche la compagnia
Gazprom, che controlla una buona fetta delle fonti di gas naturale
all'interno del suolo russo. La vicenda riguardava la costruzione di
gasdotti e centrali che consentissero lo sfruttamento a fini energetici
di queste risorse: l'accusa contestava il fatto che l'entità della spesa
non era giustificata, cioè che il finanziamento danneggiava lo stato
ucraino a vantaggio della Gazprom. Società che, attraverso una complessa
catena di partecipazioni (sempre secondo l'accusa), faceva affluire
quote in alcuni fondi di proprietà della stessa Tymošenko; nel nostro
ordinamento, il reato contestato prende il nome di peculato (lo stesso
di cui sono attualmente indagati Lusi e Fiorito). Come dicevamo, la
sentenza è stata pesantemente contestata da parte di svariate
organizzazioni anche governative come la UE, che non hanno tardato a
definire la sentenza come politica: secondo questi osservatori, il
procedimento sarebbe stato orchestrato per tagliare fuori dalle elezioni
il principale avversario dell'attuale presidente Viktor Janukovyč.
Amnesty chiedeva il rilascio immediato e incondizionato della Tymošenko e
l'archiviazione di tutte le imputazioni a suo carico, adducendo la
medesima motivazione; anche il collettivo femminista ucraino Femen (lo
stesso che tempo fa ha promosso una manifestazione contro il proscioglimento di Dominique Strauss-Kahn
dall'accusa di stupro mossagli contro da una cameriera durante un suo
soggiorno negli Stati Uniti e, secondo diversi opinionisti, manovrata
con il fine di espellere l'ex presidente del FMI dalla corsa all'Eliseo)
ha preso parte alle proteste per la liberazione della "lady di ferro". Il gruppo di contestatrici qualche mese fa è salito agli onori della cronaca per aver distrutto un monumento in memoria delle vittime dello stalinismo situato nel centro di Kiev: la leader del movimento, Inna Shevchenko, ha abbattuto una croce di Cristo morente usando una motosega
la sceneggiata è stata organizzata per dimostrare solidarietà nei confronti del gruppo feminist punk
russo denominato Pussy Riot, del quale come ben saprete sono state recentemente
condannate due esponenti a seguito di un concerto, giudicato blasfemo e
di incitazione all'odio religioso, organizzato all'interno della più
importante cattedrale di Mosca: cinque musicanti incappucciate si sono intrufolate nella chiesa di Cristo Salvatore per intonare un motivetto di discutibile valore artistico accompagnato da liriche banali e scontate che non vale proprio la pena riportare, a parte forse il passaggio in cui il capo della Chiesa Ortodossa viene definito puttana (questo è il video dello spettacolo con i sottotitoli in inglese). Anche per loro, Amnesty si è mobilitata
chiedendo alle autorità russe il rilascio immediato e incondizionato
delle tre componenti arrestate, e l'archiviazione di tutte le
imputazioni a loro carico. La motivazione addotta, di nuovo supportata
dalle medesime associazioni di cui si parlava prima, è che il
procedimento penale fosse stato montato per ragioni di natura prettamente politica,
ossia in qualche modo per "onorare" il presidente in carica Vladimir
Putin che in effetti è stato coinvolto esplicitamente nella "preghiera punk" (il cui ritornello scandiva le parole Vergine Maria, manda via Putin) e nel contempo zittire uno scomodo avversario. Le Pussy Riot non godevano di alcuna visibilità né nel panorama culturale locale né tantomeno nella scena istituzionale russa,
tant'è che erano praticamente sconosciute anche in ambito strettamente musicale;
l'unico evento degno di nota e documentato antecedente al vilipendio
della chiesa moscovita riguarda la leader del movimento, Nadezhda
Tolokonnikova (una studentessa di filosofia 22enne), che come partecipante del collettivo Voina aveva condotto
una manifestazione sempre contro Putin ma che non aveva prodotto alcuna
conseguenza né amministrativa né penale. A seguito della vicenda che le
ha fatte salire alla ribalta, la stampa occidentale ha costruito un
imponente apparato di opinione che accusava il presidente del Cremlino
di aver pilotato le procedure legali contro le tre donne imputate,
secondo alcuni per motivi di convenienza politica mentre secondo altri (diciamo
un po' più "realisticamente") o per ottenere "vendetta" nei confronti
di chi lo aveva insultato o per "intimorire" il popolo e prevenire così
nuove contestazioni contro il governo. Ragionevolmente per cercare di
difendersi da questa campagna mediatica particolarmente aggressiva, Putin aveva pubblicamente lanciato un appello
affinché le Pussy Riot venissero trattate con clemenza: questo si può
spiegare assumendo una presa di consapevolezza del fatto che
un'eventuale sentenza di colpevolezza nei confronti delle manifestanti e la relativa amplificazione strumentale da parte
della stampa non avrebbero giovato alla sua reputazione e alla
possibilità di essere nuovamente rieletto. La condanna di due delle tre
contestatrici in passamontagna potrebbe stare a significare che
probabilmente i tribunali russi non "obbediscono" al presidente come
alcuni vorrebbero far credere; quel che è certo è che Putin, con le sue
politiche protezioniste, è malvisto dalle multinazionali occidentali che
tuttora chiedono una maggiore partecipazione in diverse società russe,
tra cui guardacaso Gazprom. È noto del resto che alcune agenzie americane, ad
esempio la Usaid, abbiano finanziato ONG russe come Golos che hanno poi accusato Putin di essere stato eletto solo grazie a brogli elettorali.
La
vicenda delle Pussy Riot è stata pubblicizzata da Amnesty International
attraverso un'intensa campagna mirata a denunciare la repressione del
dissenso in Russia e sottolineare che il gesto delle artiste "si
configurava come una legittima espressione del proprio pensiero": preso
atto di ciò, è ben strano che la stessa organizzazione non si sia
minimamente occupata dell'arresto di un 27enne greco accusato di aver
diffuso in rete alcune immagini blasfeme
di un monaco ortodosso, Elder Paisios, piuttosto noto nel paese ellenico. Si trattava per la precisione di
alcuni fotomontaggi in cui il religioso veniva rappresentato in
abbinamento a un piatto di lasagne, che in Grecia prendono per l'appunto
il nome di Pastitsios. L'uomo si trova tuttora in carcere in attesa di
giudizio, ma nessun comunicato in suo favore è mai stato emesso dalla
ONG per i diritti umani. Ma del resto, le Pussy Riot sono state punite «perché donne»,
mentre questo qui probabilmente merita la pena perché è un maschio come
lo stupratore Assange o tutti quelli che sono stati (erroneamente, of course)
assolti in un processo per violenza sessuale. In effetti, nel caso di
persone di sesso maschile la pubblicizzazione da parte di Amnesty delle petizioni è
meno che scarsa, e generalmente verte su generiche pretese
svogliatamente replicate attraverso copia-incolla quali il
«salvaguardare la detenzione o il
benessere fisico e psicologico delle persone sottoposte a custodia» (vedi esempio). Niente a che fare con la campagna promossa a favore della Sotoudeh, della Tymošenko, delle Pussy Riot, di Sarah Shourd, di Aung San Suu Kyi (e naturalmente non anche tutti gli altri detenuti
politici birmani, colpevoli di essere portatori di membro e dunque non
degni di considerazione) e di qualche altra, tra cui Sakineh Mohammadi Ashtiani.
Come
certamente ricorderete, il caso Sakineh ha suscitato molto scalpore
tempo fa: la notizia riguardava una donna iraniana accusata di adulterio
e per questo condannata alla lapidazione. Solo dopo qualche tempo si è
scoperto, attraverso canali che purtroppo non hanno avuto una
altrettanto forte eco mediatica, che la storia è stata piazzata ad hoc
da un anti-islamico francese, Bernard-Henry Lévy (membro di una frangia
estremista che diverse volte si è contraddistinta per la diffusione di notizie false finalizzate a diffamare la cultura musulmana), e amplificata da Nicolas Sarkozy, dalla ex premier dame
Carla Bruni e da Hillary Clinton sul fronte americano. In realtà, come
hanno fatto sapere le autorità iraniane, la donna è stata condannata
solo per aver preso parte all'assassino del marito,
da lei drogato con lo scopo di semplificare l'opera all'esecutore
materiale del crimine, l'uomo con il quale la Ashtiani avrebbe
intrattenuto la relazione extraconiugale che ha poi portato all'ipotesi
di adulterio. I giudici hanno emesso nei confronti dei due una sentenza
di morte, tramite impiccagione, per il reato di omicidio volontario. Il giornalista Thierry Meyssan
fa notare che in effetti provare l'accusa di adulterio è estremamente
difficile: secondo la legge iraniana, per suffragare una simile
imputazione sono necessari quattro testimoni che abbiano assistito,
contemporaneamente, ad un qualche atto fedifrago. A conferma di ciò,
parlano gli atti della Procura in cui non si fa alcun riferimento alla
tresca. Non è certo se, qualora si riesca a dimostrare un avvenuto
adulterio, sia prevista o meno la lapidazione: Meyssan sostiene che
questo genere di pena era in vigore sotto lo scià ma che è poi stata
abolita con la Rivoluzione Islamica. Altre fonti affermano che l'Iran si
sta comunque apprestando a vietarla, impedendo così ai giudici (che
godono di un ampio margine di discrezionalità nell'irrogazione delle
punizioni) di applicarla in maniera arbitraria; sempre secondo queste
fonti, già nel 2002 il capo del potere giudiziario aveva emesso
un'ordinanza in cui invitava i magistrati a sospendere le esecuzioni per
lapidazione. Non si trattava di una disposizione vincolante, e da
allora alcune organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato una
decina scarsa di persone lapidate. Quel che è certo tuttavia, è che
Sakineh non sarà sottoposta al medesimo trattamento: tra le altre cose,
l'ANSA riporta
che l'impiccagione a cui era stata condannata è stata convertita dalla
Corte Suprema in una sentenza a 10 anni di reclusione. Per la donna,
Amnesty aveva richiesto il rilascio incondizionato e l'archiviazione di
tutte le accuse a suo carico, sostenendo il suo status di «prigioniera di coscienza».
1 agosto 2012 — Reato di pari gravità, trucco illusionistico per dare a intendere che "la legge è uguale per tutti", ma naturalmente applicazione della pena radicalmente differente. Chuck e Carissa McCullough, di Roebuck (South Carolina), sono stati condannati entrambi per abbandono di minore con conseguente decesso: a causa della loro negligenza, avevano lasciato morire il loro bambino di 2 mesi nell'auto che usavano per spostarsi. Il padre è stato condannato dal giudice Mark Hayes al massimo della pena per ciascun capo di accusa, per un totale di 30 anni: dovrà scontare l'80% della pena in carcere prima di poter avanzare richiesta di libertà vigilata, che tra le altre cose non è detto che venga accolta. Trattamento "formalmente" identico per la madre: anche per lei una sentenza a 30 anni emessa dalla giudice Letitia Verdin.
Negli USA, i magistrati hanno un enorme potere nell'applicare la legge a proprio gradimento: nel caso della McCullough, la Verdin ha sospeso completamente la pena, disponendo che la donna scontasse solo due anni agli arresti domiciliari. Dunque, se da un punto di vista burocratico è vero che la legge non dipende dal sesso, di fatto questo non è più vero per quanto riguarda la sua applicazione.
La Verdin ha dichiarato, sempre allo scopo di dare una parvenza non discriminatoria a questo che non esitiamo a definire un vero e proprio colpo di mano, che nel caso l'imputata in futuro violasse i termini della sentenza avrebbe imposto la condanna a 30 anni. Precisazioni come queste ricorrono sovente nella "giustizia" americana, e servono come accennato a nascondere l'impostazione marcatamente ideologizzata dei magistrati: di fatto, anche nel caso remoto che la donna decidesse di trasgredire ai vincoli imposti, l'interpretazione puramente discrezionale dei dispositivi le garantirebbe comunque di non finire in cella, come avvenuto ad esempio alla Lohan che, pur avendo violato più volte le condizioni delle svariate sentenze di cui è stata oggetto, è stata sempre perdonata (e ogni volta puntualmente ammonita che nel caso di reiterazione sarebbe stata punita). Questo tanto per dare un'idea del ridicolo teatrino a cui si è ridotto nel tempo il sistema legale americano.
La sfacciataggine con la quale certi "giudici" si permettono di applicare la legge in maniera talmente differenziata in funzione del sesso ha dei precedenti: riportiamo ad esempio il caso di una coppia di coniugi texani accusati di aver picchiato selvaggiamente in concorso la loro figlia di 19 mesi. Lui è stato condannato a 15 anni da scontare per intero, lei a 10 con la totale sospensione della pena a patto che non faccia più figli.
Non parleremo in questa sede della licenza di uccidere persone adulte, ma dell'altra, quella che permette alle donne in gravidanza di interrompere la vita di un nascituro. Perché è ormai assodato, la vita di un feto vale meno rispetto a quella di una persona formata e quindi è necessario fare i dovuti distinguo. L'argomento che portano avanti i fondamentalisti anticattolici e le femministe che li controllano è più o meno il seguente
Il feto fa parte del mio corpo, per cui ci posso fare quello che voglio. L'ho tenuto in gestazione io, per mesi e mesi, dunque se mi scoccio ho il diritto di tornare indietro
qualcuno sostiene che questo non sia affatto un discorso egoistico. Ma non è tanto questo il punto su cui volevamo premere.
La questione riguarda la palese disparità a cui sono sottoposti i due membri della coppia. Mentre la donna può scegliere di interrompere la gravidanza, il maschietto non può obbligare la consorte a farlo (perché il corpo è della donna e lo gestisce la donna); d'altra parte se la gestante non vuole dare al mondo un figlio e l'uomo si, vince insindacabilmente la volontà della prima. Se si accetta questo status giuridico, correttezza vorrebbe che nella situazione opposta, quando cioè è la donna a volere il figlio e il compagno no, debba essere garantita a quest'ultimo la facoltà di non riconoscere il nascituro, svincolandolo dal prendersene cura. Di fatto però la legge stabilisce che la madre può obbligare il padre al riconoscimento forzato e al mantenimento fino ai 18 anni. In sostanza, se si è d'accordo con l'aborto, bisognerebbe per logica permettere anche all'uomo di fare una scelta analoga: ma si sa che logica e femminismo sono concetti che non vanno molto d'accordo. Di fatto il femminismo si configura come un minestrone di istanze del tutto scoordinate e funzionali solo e unicamente a garantire alla donna il diritto (o meglio, il privilegio) di fare ciò che vuole, anche eventualmente a danno del maschio che come ci insegnano le nostre sorelle è da considerarsi solo come "dispensatore di godimento, sperma e soldi", "vibratore ambulante" e così via.
Wikipedia con il tempo si è trasformata da progetto collaborativo, in cui alcune persone si coordinavano per costruire un'enciclopedia ricca di contenuti, ad un complesso e ben poco trasparente sistema di amicizie basato sullo strapotere di determinati utenti, quelli ai quali è assegnata la facoltà di bloccare voci e account. Era prevedibile che un website nel quale non vige alcuna regola, o dove l'interpretazione delle regole è ad appannaggio di pochi "sceriffi", si tramutasse con il tempo in un luogo virtuale dove conta solo il punto di vista di alcune persone, in particolare quelle che avendo molto tempo da perdere lo sfruttano per "presidiare" le pagine dell'enciclopedia, fare carriera e entrare nelle grazie di quella che altrove è stata denominata wikimafia.
Gli editori che non si assoggettano al volere di questi individui, portando un contraddittorio al loro personale metodo di selezione delle fonti e delle informazioni (normalmente prelevate dal web attraverso la ricerca di parole chiave su Google), vengono usualmente definiti troll (termine prestato dalla mitologica nordica e indicante originariamente una creatura dalle fattezze umane ma estremamente sgradevole; nel riadattamento wikipediano la parola starebbe invece a designare i "disturbatori"), perseguitati, esasperati, e infine espulsi a tempo indeterminato dal sito. Di fatto, allo stato attuale, Wikipedia si configura come un piacevole passatempo ove persone del tutto incompetenti partecipano alla stesura delle voci in maniera del tutto marginale, limitandosi a reperire su internet fonti che assecondano il loro punto di vista e la loro ideologia e inserendole sotto forma di affermazioni apodittiche e perentorie all'interno delle voci, e trascorrendo la stragrande maggioranza del loro wikitempo a controllare che nessuno si permetta di modificare quanto da loro espresso, inibendo come detto ogni attività di contraddittorio attraverso il blocco in scrittura delle pagine e il famigerato ban.
L'altro aspetto, che si affianca a quello dei criteri puramente arbitrari di selezione delle fonti, è quello della censura, ossia l'attività attraverso cui i nostri eroi si arrogano il diritto di decidere quali fonti sono valide e quali no. Così, per assurdo, quanto affermato per esempio da giudici costituzionali e magistrati diventa sorgente non degna di stare su Wikipedia per “ingiusto rilievo” o perché, a scelta, si tratta di istituzioni del patriarcato, mentre i contenuti del blog amico Femminismo a Sud vengono accreditati e inseriti nelle voci in qualità di fonti attendibili; anche in questo caso, chi pur rinunciando a equilibrare la situazione si limita a far notare simili incongruenze viene etichettato come troll ed espulso. Non ci stiamo inventando niente, questo è quello che accade dietro le quinte e che sfugge ai più; prossimamente vi documenteremo tutti gli abusi di cui siamo venuti a conoscenza. Molto altro già lo potete trovare sul sito di WikiPerle.
Nell'analisi che faremo in questo post (puramente esemplificativa, c'è ben di peggio e come promesso ve ne parleremo in seguito) evidenzieremo le modalità attraverso cui i membri della wikicricca sembrano assecondare l'ideologia anti-uomo di una certa Rhockher (una di Femminismo a Sud), permettendole di manipolare le informazioni dell'enciclopedia al fine di sostenere una particolare tesi (la sua); la voce a cui si fa riferimento è quella di Valerie Solanas. Attualmente nella voce è riportato che la Solanas è stata oggetto di abusi sessuali da parte del padre durante l'infanzia (al fine di giustificare la carica con la quale la tizia se la prende con il genere maschile) e che la sua opera principale, il manifesto SCUM, era solo una parodia del patriarcato.
I fatti sono i seguenti
dall'articolo "About Valerie Solanas" di Freddie Baer, che è un'intervista rilasciata dall'autrice dello SCUM a The Village Voice nel 25 luglio 1977, si può solo affermare che la Solanas ha dichiarato di essere stata vittima di abusi sessuali da parte di suo padre; l'utenza manipolatrice Rhockher lo presenta tuttavia come dato di fatto in maniera puramente strumentale
la fonte citata in voce non afferma in alcun punto che il testo è stato scritto con stile ironico e parodistico. L'utenza falsificatrice sostiene tra l'altro in maniera perentoria che l'opera "ribalta tutti i cliché sull'inferiorità femminile", omettendo di riferire che questa è solo l'opinione di una femminista di nome Avital Ronell (smentita in ogni caso da qualificazioni del tipo "vibratore ambulante" o da estratti come quello da noi precedentemente citato e puntualmente rimosso dalla medesima persona da altra voce, quella appunto sullo SCUM manifesto)
nessuna fonte afferma che la Solanas si è costituita alla polizia dopo il tentato omicidio di Warhol
nonostante una delle policy fondamentali di Wikipedia sostenga che è necessario assegnare una fonte ad ogni affermazione riportata nelle voci dell'enciclopedia, svariati interventi di amministratori e amiconi vari non hanno fatto altro che riportare la pagina alla versione di Rhockher, cementificando de facto il suo punto di vista e le sue mistificazioni. L'elenco dei rollback (esclusi quelli di Rhockher) è il seguente
[1] e [2] di Ignlig, un signore che trascorre molto tempo sul sito essendo di fatto puntualmente presente in concomitanza di quasi ogni modifica
[3] di Ignlig e Guidomac, quest'ultimo intervenuto a sostegno del compare (peraltro bloccando l'utenza che cercava di far valere le proprie ragioni, sostenendo che i suoi fossero vandalismi)
[6] di Vituzzu, un altro elemento del quale vi avevamo già parlato; questo signore, molto probabilmente per compiacere la sua amichetta queer, opta in quel caso per il blocco del contestatore con la solita motivazione a quanto pare molto inflazionata (Evasione del blocco)
[8] di Blackcat, nickname di tale Sergio D'Afflitto, noto tra l'altro per far parte del gruppo di fanatici denominato UAAR e per aver proposto sempre su Wikipedia l'abolizione del gruppo di coordinamento dedicato alla stesura di voci riguardanti la religione e il cattolicesimo (vedi)
questi che sono intervenuti sono tutti sysop, a parte quel Blackcat; i revert come si vede sono del tutto privi di motivazione (e certo, che avrebbero dovuto scriverci?). Un sunto dei dati falsi presenti attualmente sulla voce della Solanas e delle correzioni inutilmente effettuate dai vari utenti lo potete trovare nelle due immagini seguenti
Hannah Byron sottoposta alla gogna mediatica
dalla stampa patriarcale
Teesside (UK), 12 maggio 2012 — Aveva falsamente denunciato di essere stata violentata da un uomo; per questo motivo la polizia ha arrestato un sospetto, che è rimasto in cella nove ore prima di essere rilasciato senza alcuna accusa. Hannah Byron, la calunniatrice, è stata per questo condannata a 150 ore di servizio sociale; la sentenza a 12 mesi di carcere è stata completamente sospesa, come sovente accade. Il giudice nel dispositivo ha dichiarato di averle risparmiato la prigione per un soffio, ovvero ricorrendo alla formula giuridica (alquanto inflazionata) "by a whisker" o "by a short whisker". Ancora una volta, una delinquente che non ha messo piede in cella e un innocente falsamente accusato che ha dovuto subire l'umiliazione delle manette e della presunzione di colpevolezza: in effetti lui è riuscito a scagionarsi solo fornendo un alibi.
Il magistrato che ha "condannato" la Byron ha così dichiarato il proprio disgusto per la vicenda
There is a further concern that genuine victims of sexual assaults might be put off from approaching the police [...] We would like to reiterate that we continue to treat all such allegations
seriously and wish to reassure the community that such reports will always be taken seriously and will be fully and properly investigated (Siamo seriamente preoccupati che fatti come questo possano disincentivare le vere vittime della violenza a rivolgersi alla polizia [...] Vorremmo rimarcare che in ogni caso continueremo a trattare tutte le accuse di violenza sessuale con la massima serietà, e rassicurare la comunità che tali denunce saranno sempre prese sul serio nonché approfonditamente investigate)
Si tratta di una prassi molto diffusa negli USA. I Procuratori spesso chiedono alla donna correa di rendere testimonianza contro il maschio in cambio di una sospensione della condanna. A lei naturalmente. Nel caso che andiamo ad analizzare, la 31enne Anna Hogan, coimputata insieme al fratello Michael Combs in un processo per abuso di minore, ha scelto di fornire dichiarazioni utili a far condannare il complice in vista di uno sconto di pena; in realtà la sentenza a 8 anni a lei inflitta dal giudice è stata completamente sospesa come riconoscimento per la testimonianza che ha permesso di spedire Combs in carcere. Anna Hogan ora è libera.
Cagliari — A settembre terminerà di scontare tre anni di carcere ma non sa dove andare a vivere nonostante sia proprietario di un appartamento in temporanea comunità di beni con l'ex moglie che lo occupa con il nuovo compagno. La paradossale vicenda che ha come protagonista un detenuto del carcere di Cagliari è stata resa nota da Maria Grazia Caligaris, presidentessa dell'associazione Socialismo Diritti Riforme Maria, che esprime seria preoccupazione «per gli imprevedibili sviluppi che la vicenda potrebbe avere senza di fatto arrivare a una soluzione che rispetti il diritto delle parti in causa».
Il giudice, essendo in corso la causa di separazione, non può assegnare la casa a uno soltanto degli ex coniugi in quanto non ci sono minori in causa; di fatto essi risultano al momento proprietari dell'immobile al 50% per effetto della comunione dei beni. «È assolutamente necessario — sottolinea la presidente di Sdr che più volte ha incontrato il detenuto — assumere un'iniziativa che consenta all'uomo, peraltro invalido, di ottenere ciò che gli spetta.
Il detenuto non ha neanche potuto trascorrere l'ultimo anno di pena ai domiciliari perché la sua casa era occupata dalla ex moglie e dal suo nuovo compagno».
Usciti i nuovi dati Istat sull'affido condiviso. Secondo l'istituto nazionale di statistica, l'applicazione di questa tipologia di contratto post-matrimoniale è salita di 2.6 punti percentuali rispetto all'ultimo anno; ne parla anche Maschile Plurale (la fonte la trovate qui). Le statistiche Istat non citano il fatto che nella stragrande maggioranza dei casi l'affido condiviso, come denunciato da Adiantum, utilizza la formula della domiciliazione prevalente presso la madre; un'interrogazione parlamentare guidata da Rita Bernardini ha chiesto conto del perché
in diversi Tribunali della Repubblica siano ancora in uso (o lo siano
stati fino a pochissimo tempo fa) dei moduli pre-stampati e
pre-compilati nei quali, sostanzialmente, si prevede che in sede di
separazione legale dei coniugi l'istituto dell'affido condiviso dei
figli di cui alla legge n. 54 del 2006 possa essere regolato
esclusivamente con l'attribuzione del cosiddetto domicilio prevalente,
ossia con l'allocazione automatica del minore alla madre, in violazione di quanto previsto dalla normativa vigente
dettaglio importante secondo noi, perché se si tiene conto di questo fatto i casi di vero affido condiviso sarebbero meno del 19% (dati relativi al 2008).
A proposito della crisi economico-finanziaria — È urgente creare dei meccanismi per limitare la presenza maschile al
potere [...] specie quando avviene attraverso meccanismi di cooptazione [cameratismo patriarcale] [...] soprattutto nella politica e nell'economia [...] visti i risultati disastrosi mostrati dalla crisi [giusto, perché gli aspetti negativi sono da attribuirsi al maschio, mentre quelli positivi sempre e indiscutibilmente alla donna; tutto ciò ricorda molto gli annunci di un noto demagogo, ma lasciamo perdere]. Quello della presenza delle donne nei luoghi decisionali è uno
dei punti critici della situazione femminile nel nostro Paese.
Le donne sono investitori più prudenti
degli uomini e l'esclusione dalle posizioni di vertice delle banche
avverrebbe anche per questa ragione, dato che nei consigli di amministrazione a quanto si racconta le
decisioni sarebbero rischiose ma determinanti per il successo [insomma, secondo la Sabbadini il motivo della crisi non sarebbe da ricercarsi nelle manovre speculative di un'economia di mercato certamente troppo liberale, ma nell'eccesso di testosterone presente nei CdA].
Vorremmo analizzare un articolo (http://femminismo-a-sud.noblogs.org/post/2012/07/14/violenza-assistita-e-mamme-maltrattanti) redatto da cybergrrlz, blogger di Femminismo a Sud e riguardante il tema scottante della violenza assistita (il post è stato leggermente modificato per non incorrere nelle sanzioni riservate dai motori di ricerca a chi copia di peso le fonti; le frasi tra parentesi quadre sono nostre aggiunte)
Stasera ho
sentito il Tg3 Notte che parlava di violenza sulle donne. I giornalisti si sono concentrati sulla violenza assistita, ovvero la violenza maschile cui
assiste un bambino e che provoca traumi indelebili.
Sul fatto che il Governo Italiano debba provvedere a creare una norma che riconosca la violenza assistita come penalmente perseguibile ha parlato anche l’Onu nelle sue raccomandazioni e nella sua esposizione sul femminicidio in Italia [si veda qui].
[...]
In questi giorni, dicevo, si è parlato molto anche di violenza assistita. L’Associazione Pangea ha parlato dell'esistenza sul territorio di alcune case (http://www.pangeaonlus.org/main.php?liv1=progetti&liv2=in_corso&liv3=italia_piccoli_ospiti)
che sono proprio predisposte a sanare le relazioni tra le mamme vittime di
violenza e i bambini che devono essere aiutati a superare il trauma [della violenza assistita]. La Repubblica ha condiviso
i dati che parlano di cifre comprese tra i 400 e le mille migliaia
di minori di età inferiore ai 18 anni vittime di violenza assistita.
Anche il telefono Rosa parla del fenomeno su La Stampa.
Su Rai Tre,
dicevo, ho visto uno spezzone di intervista fatta a una donna, che parlava delle vittime di violenza assistita e di come questo genere di abuso si ripercuota sulla vita delle madri. Tra le tante
cose più o meno condivisibili dette nella trasmissione ce n’è stata una che non ho
condiviso affatto: non so su che dato si basasse la sua testimonianza, ma mi
permetto di contestare il dato secondo cui i bambini, maschi, vittime di violenza assistita
da grandi diventeranno violenti mentre le femmine da adulte si ridurranno ad essere vittime di violenza maschile.
Mi sembrerebbe
oltremodo strano e stereotipato che un trauma si manifesti in modo
diverso a seconda del genere al quale occorre [il fatto è che la violenza assistita viene percepita in maniera differente a seconda del ruolo sociale della persona coinvolta, che è diverso per maschi e femmine: i primi sono investiti di maggiori aspettative sul profilo socio-economico, le seconde ad adempiere ai ruoli di cura imposti dalla famiglia]. Non ho dati e
non mi permetto di parlarne con superficialità, ma so per certo che
almeno in alcuni casi che conosco le donne che sono state vittime di
violenza assistita, che hanno imparato a subire, [...] sono diventate a loro volta veicolo di maltrattamento nei confronti di chi era più debole: i bambini [ed ecco dove scatta il giustificazionismo: le madri violente sono tali probabilmente perché a loro volta imbrigliate da piccole nei meccanismi perversi della violenza assistita].
Ho visto madri
che urlavano ai bambini peggio di sentinelle della Gestapo e
mamme che li picchiavano per qualunque cosa in nome della frustrazione, della solitudine, dell’assenza di aiuto, o semplicemente
perché ove non esistano ragioni per picchiare i bambini l'unico altro modo di comunicare con essi rimane per l'appunto la
violenza. Dunque capisco che ci sia la necessità di sanare le relazioni e
la psiche di persone così provate ma è anche necessario, credo, liberare la
necessità delle donne vittime che diventano esse stesse veicolo di
violenza di vedersi riconosciuto in quanto soggetti complessi il ruolo di oppresse
che diventano oppressore, di vittime che diventano carnefici, complici,
talvolta, e comunque demonizzate, mai comprese nello sforzo di
accettazione che fanno di se stesse che dovrebbe essere la prima
importante fase dopo la quale poter accedere ad un percorso di recupero
di sé, di autoaccettazione, comprensione e cambiamento. Perché quelle
madri vittime di violenza che tireranno schiaffi ai figli se non
vengono liberate dalla costrizione di dover apparire sempre sante
(altrimenti demoni) non potranno mai affrontare il loro problema e lo
negheranno perché si sentiranno solo dei mostri. Incapaci e piene di
sensi di colpa [beh, il fatto strano e stereotipato, per usare le sue stesse parole, è che questo apparato giustificazionista debba valere solo per le donne, quando ad essere vittime di violenza assistita sono maschi e femmine in egual misura; di fatto la stigmatizzazione sociale dei comportamenti violenti avviene proprio in questo senso. La nostra sorellina parte da un assunto condivisibile, quello della bilateralità del trauma, per approdare non si sa come ad un'interpretazione prettamente unilaterale].
Le mammegià
vengono definite troppo spesso come mostri e si sentono cattive a
sufficienza perché nessuno le legittima e le autorizza a mostrare i propri
egoismi e le proprie imperfezioni [...].
Dulcis in fundo, vi riportiamo il commento di Chiara Lo Scalzo, gestrice di un blog denominato "Il ricciocorno schiattoso"
Secondo me discutere sul fatto che la violenza sulla mamma possa o non
possa necessariamente provocare traumi permanenti sui figli non fa che
sottolineare la sudditanza del suo ruolo di madre al suo diritto di
essere considerata essere umano a tutti gli effetti [lei si e gli uomini no? loro non sono vittime di violenza assistita?]. C’è bisogno di un'ulteriore motivazione per tutelare una donna
sottoposta a violenze dal suo compagno, ovvero che anche la prole ne
soffre, perché la sua sofferenza di donna da sola non basta a
giustificare dei provvedimenti che impediscano a quest’uomo di compiere
altre violenze [di fatto, come diciamo sempre, basta la parola di una donna a far scattare le manette].
C’è la tendenza a generalizzare su tutto: se due si separano la colpa è
di entrambi, sempre, se c’è conflittualità è colpa di entrambi, sempre…
Se una donna è maltrattata la colpa è anche sua, perché si è lasciata
maltrattare: questo è il pregiudizio che odio di più, e finché non
verrà sradicato, restituendo alle vittime il ruolo di vittime e ai
colpevoli il ruolo di colpevoli [e il fatto che i maschi colpevoli possano essere stati a loro volta vittime di violenza assistita non lo si prende in considerazione? è facile interrompere il "flusso di responsabilità" in base al sesso, ma non ci sembra una manovra eticamente molto corretta], finché non si accetterà che in qualche
questione si può risalire ad un soggetto responsabile e ad una vittima
incolpevole, che non ha potuto, per impossibilità materiale, difendersi,
allora si continuerà a girare attorno al problema… [e allora è meglio tagliare la testa al toro, giusto?]
[...]
È ora di finirla con questo scaricabarile, e puntare il dito contro chi determina la violenza, contro chi usa il sopruso e la minaccia e profitta
vigliaccamente dei soggetti fisicamente più deboli, invece
di cercare nelle vittime il seme di ciò che hanno subito.
Questa mattina la giudice per le indagini preliminari Elisabetta Meyer ha emesso una durissima sentenza ai danni del parlamentare PDL Renato Farina, imputato in rito abbreviato per "falso in atto pubblico".
La Meyer ha condannato Farina a 2 anni e 8 mesi senza sospensione condizionale della pena, obbligando di fatto il deputato a scontare la condanna in carcere nel caso il dispositivo dovesse essere accolto in Cassazione.
La vicenda ha origine da una visita di Farina del 12 febbraio a Lele Mora, contro il quale la Meyer come vi avevamo fatto notare sembra avercela particolarmente (molto probabilmente perché portatore sano di membro), presso il penitenziario di San Vittore dove il talent scout si trova attualmente a scontare una condanna per bancarotta fraudolenta. La legge italiana consente a deputati e senatori di fare visita ai detenuti, anche se accompagnati dai propri collaboratori; lo sgarro del parlamentare è stato quello di farsi seguire da un ventenne che, seppur non coinvolto nell'inchiesta Mora, non figurava magari per qualche dimenticanza burocratica tra gli ammessi ad accedere ai colloqui con i carcerati. Da qui l'imputazione in "falso in atto pubblico" che ha determinato la condanna da parte della Meyer.
Fatti come questo evidenziano l'arroganza di certa gente che, in virtù della propria posizione e di personali convinzioni politiche o ideologiche, è convinta di poter fare il bello e il cattivo tempo con la libertà delle persone come se l'amministrazione della giustizia fosse un'attività da poter prendere a cuor leggero. Del resto è curioso osservare come accanto a cittadini che pagano in maniera salata i propri errori vi siano veri ed autentici criminali che invece non vengono puniti solo per il fatto di appartenere alla schiera dei "protetti" (o delle "protette" come nel caso in oggetto). Un altro punticino per la cricca milanese, in attesa di nuove e mirabolanti imprese per le quali siamo sicuri non dovremo attendere molto.
Apprendiamo che in data 6 maggio 2011 una consigliere regionale donna è stata assolta per insussistenza del fatto dopo essere stata imputata in un procedimento esattamente analogo a quello per cui è stato condannato Renato Farina; anche lei era stata accompagnata da due "infiltrate" in una visita al carcere di Rebibbia. Non sappiamo se la sentenza sia stata confermata in Cassazione; nel caso lo fosse, quella della Meyer sarebbe da considerarsi, oltre che un atto di prepotenza gratuito, un dispositivo con tutta probabilità illegale.
10 febbraio 2011, Firenze — Ha trascorso cinque mesi
e cinque giorni in carcere, accusato di violenza sessuale, ma al termine del
procedimento penale a suo carico il tribunale lo ha assolto. La Procura non ha presentato
appello, date le evidenze, e la sentenza di assoluzione è divenuta definitiva;
la donna che lo ha accusato intanto si è dileguata. Nonostante ciò la Corte di
Appello gli ha negato il risarcimento per ingiusta detenzione, sostenendo che
egli avrebbe tenuto una condotta gravemente colposa, «caratterizzata da
noncuranza, negligenza, imprudenza, indifferenza per quanto da essa potesse
prevedibilmente derivare»: una condotta “avventurosa” insomma, con la quale
avrebbe “certamente” indotto gli inquirenti ad adottare la misura coercitiva.
In parole povere, se è stato in carcere innocente 5 mesi e 5 giorni è solo
colpa sua. Questa vicenda, che ha dell’incredibile, è quanto è accaduto a un
cittadino peruviano di 32 anni. Superata l’incredulità, i suoi legali – Giacomo Passigli, Corso Gineprari e Michele Ducci – hanno presentato ricorso in
Cassazione.
Il giovane peruviano, incensurato, era accusato di aver abusato di una
connazionale nell’agosto 2008, nel corso di una festa in un locale delle
Cascine. Lui ha sempre negato, sostenendo che era stata lei, durante tutta la
serata, ad avergli fatto il filo (nonostante fosse in compagnia del fidanzato),
e che il rapporto sessuale occorso era stato consenziente. Finito in carcere
per violenza sessuale a seguito delle dichiarazioni mendaci dell’anonima, ha
dovuto attendere l’esito del processo a Sollicciano prima di vedere
riconosciute le sue ragioni. La giovane del resto ha fornito almeno tre
versioni diverse della serata ed è caduta in molte contraddizioni.
Dopo 5 mesi e 5 giorni di carcere, l’imputato è stato assolto. Ma secondo la Corte
non ha diritto al risarcimento a causa della sua condotta gravemente
imprudente.
Protestano gli avvocati e nel ricorso in Cassazione scrivono: «È
assolutamente illogico (e inaccettabile) sostenere che accettare l’invito ad un
incontro più intimo con una persona ad una festa, probabilmente dopo aver
bevuto un po’ più del normale, debba far ritenere “prevedibile” che l’altra
persona possa inventarsi una violenza sessuale». Il giovane avrebbe potuto
certamente prendere in considerazione un eventuale rifiuto della ragazza di
andare avanti con il rapporto sessuale (nel qual caso si sarebbe interrotto),
ma di certo non poteva sospettare che lei lo avrebbe denunciato per stupro
facendolo finire dentro per oltre cinque mesi.
Una ormai ex star del football giovanile, i cui sogni di successo sono stati distrutti in maniera irreparabile da una condanna per violenza sessuale, è scoppiato in lacrime quando un giudice ha finalmente archiviato le accuse che lo avevano spedito in carcere per più di cinque anni. Brian Banks, 26enne di Long Beach (California), una decade fa si era dichiarato non colpevole delle imputazioni mosse a suo carico da una compagna di infanzia che lo aveva falsamente accusato di aggressione e stupro.
Le cose hanno iniziato a "mettersi bene" per Banks quando la calunniatrice, Wanetta Gibson, gli chiese l’amicizia su Facebook una volta che lui era uscito di prigione. In quell'occasione la ragazza gli confessò di aver mentito per poter godere del ricco vitalizio destinato alle “vittime” di violenza sessuale, rifiutandosi però nel contempo di ripetere la confessione davanti agli inquirenti per timore di dover restituire il milione e mezzo di dollari che aveva guadagnato da una causa civile contro la Long Beach School, teatro della mai avvenuta violenza.
Il secondo incontro tra i due venne segretamente registrato attraverso una videocamera: nel filmato, che potete visionare su Youtube, la ragazza dice a Banks
Sono disposta ad aiutarti, ma non voglio dover rinunciare a tutti quei soldi
al momento non è certo se la Gibson dovrà restituire il denaro fraudolosamente estorto al college, l’unica cosa che si sa è che la donna non verrà perseguita, dato che all’epoca dell’accusa aveva solo 15 anni (questa almeno è la motivazione addotta dalla procuratrice distrettuale). Intervistata in merito a quelle dichiarazioni, Wanetta Gibson non ha voluto rilasciare alcun commento.
Brian Banks ha dichiarato di aver perso tutte le speranze di poter provare la propria innocenza fino a che la sua ex compagna di infanzia non lo ha contattato; ha affermato di essersi sentito scioccato e senza parole il giorno che la Gibson ha comunicato con lui, dopo cinque anni e due mesi di carcere. Secondo l'avvocato, il professor Justin Brooks, il ragazzo avrebbe potuto essere rilasciato prima, se solo la sua accusatrice avesse cambiato idea e ritrattato la sua versione in tempo.
Dopo la sentenza di proscioglimento, Brooks ha chiesto alla lega di concedere a Banks almeno una chance di diventare giocatore professionista, nonostante tutti gli anni perduti. Per motivi burocratici, il 26enne è tuttavia ancora in prova e deve indossare il braccialetto elettronico; la prossima cosa da fare per lui, ha dichiarato il professor Brooks, sarà richiederne la rimozione. All'uscita dal tribunale, Banks indossava una t-shirt con scritto Innocent; tutti i suoi parenti e amici lo hanno imitato per riconoscergli solidarietà.
Wanetta Gibson aveva accusato Brian Banks di rapimento e stupro; nonostante ci fossero diverse inconsistenze nella versione della Gibson, ad esempio l'aver riferito ad alcuni che la violenza si era consumata nell’ascensore della scuola e ad altri sulle scale, il ragazzo è stato condannato da una giuria prevalentemente femminile a scontare cinque anni e due mesi di carcere.
Vorremmo analizzare alcuni casi di omicidio occorsi negli ultimi mesi.
C'è il caso di Maryana Kaminska, la ventenne condannata a 4 anni (16 aprile 2012) per aver ammazzato il fidanzato con un colpo di coltello al cuore; secondo la Procura il gesto sarebbe stato di natura difensiva, perché la coltellata non è stata inferta dall'alto verso il basso ma seguendo una traiettoria orizzontale, come se il coltello, testuali parole della perizia, fosse stato usato come scudo difensivo contro il fidanzato violento (fonte). Ed è proprio per questa magnanimità degli inquirenti che la signorina è stata liberata dopo tre settimane di arresto preventivo; ora si trova tranquillamente a casa, perché si sa condanne sotto i 4 anni non si scontano, al massimo c'è l'affidamento in prova ai servizi sociali. Si rilevano in questo caso due costanti spesso presenti in questo genere di avvenimenti: l'uso di un'arma da taglio come strumento di difesa, e la puntuale criminalizzazione della vittima maschile, che essendo deceduta non può difendere la propria onorabilità.
Citiamo (10 maggio 2012) poi la condanna a 10 mesi per concorso in omicidio (mesi, non anni, nessun errore di battitura: sembra incredibile ma è così) di Stefania Citterio, della quale vi avevamo già parlato. Il fratello naturalmente non essendo vaginadotato è stato condannato a 14 anni; lui andrà a far compagnia a quell'altro che era stato punito con 16 anni in rito abbreviato. Non si conoscono le motivazioni della sentenza, ma la Siciliano, pm dell'inchiesta, ha rilevato "lo straordinario equilibrio manifestato dal tribunale in un processo molto difficile" (anche perché caratterizzato da un clima di omertà da parte dei testimoni, intimoriti dalle minacce inflitte dal Ciavarella e dalla stessa Citterio prima dei rispettivi arresti). L'assassina è stata così liberata anche dagli arresti domiciliari a cui era stata sottoposta in precedenza. Ringraziamo la stampa quantomeno per non aver criminalizzato il povero tassista rimasto ucciso (ma questo forse perché nell'omicidio erano coinvolte due persone di sesso maschile che andavano assolutamente messe alla gogna).
Infine, dulcis in fundo (17 maggio 2012), l'assoluzione della criminale anonima che ha ucciso il marito dopo avergli stretto i testicoli e sfondato l'intestino con un tubo di marmo. Per lei niente carcere, solo un'imputazione per omicidio preterintenzionale in quanto secondo i Carabinieri non può inquinare le prove. Anche qui si rileva la criminalizzazione dell'elemento di sesso maschile: "si era trasformato in un’altra persona [...] rientrava a casa ubriaco [...] aveva tradito la moglie con una prostituta".
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